Un commento del Direttore sull'attuale situazione in Corea del Nord. Uno scenario lontano e drammatico. I fatti della Corea del nord mi rammemorano un raro soggiorno a Pyongyang di non moltissimo tempo fa, all’indomani della morte di Kim il Sung. Se non fosse per i giardini pieni di fiori e le acacie sulle colline rigogliose e lungo il fiume, Pyongyang potrebbe apparire una città irreale, artificiale: una sorta di palcoscenico allestito per un film di fantascienza: ricca, coloratissima, ultramoderna, ma inquietantemente vuota. Le strade son larghe, ma con pochissime macchine. [continua]
Oggi la città sembra più una metropoli scandinava che asiatica: gli uomini vestiti di scuro all'occidentale, con camicia bianca, cravatta e scarpe di cuoio sempre lustre; i bambini in uniformi rosse e azzurre; le donne in gonne variopinte come se fossero sempre nel costume nazionale assegnato loro per un qualche festeggiamento. Il processo di persuasione comincia nei pulitissimi, meccanizzati, efficienti asili, dove già a tre anni i bambini imparano a inchinarsi davanti all'immagine di Kim, a imparare a memoria le storie delle sue gesta gloriose, ad amarlo. "Quanti figli ha il presidente Kim Il Sung?" ho chiesto varie volte. E la risposta standard è stata: "Siamo tutti suoi figli".
Per quasi trent'anni i nordcoreani sono vissuti come in una cella d'isolamento, completamente tagliati fuori dal resto del mondo di cui non sanno assolutamente nulla. Lo Stato ha un controllo totale sulla popolazione ed è in grado di mobilitarla al minimo cenno. Ogni volta che una delegazione amica arriva a Pyongyang, l'aeroporto si riempie di una folla che urla entusiasta. Pyongyang è l'unica città asiatica a non avere biciclette: anche questa un'astuta precauzione contro i potenziali pericoli della troppa mobilità individuale.
L'intera Pyongyang è un monumento dedicato alla grandezza del Presidente, e ogni costruzione è a sua volta una prova del suo amore per il popolo. Stazioni ferroviarie e palazzi pubblici, sproporzionati, prodotti di un'ossessiva megalomania, sono le cattedrali della vera religione di questo Paese, che non è il socialismo, una parola usata sempre più raramente, ma il kimilsunghismo. Allo stesso Museo delle tradizioni popolari di Pyongyang invano cercheresti segni della presenza religiosa. Alla mia richiesta alla guida su questa assenza, mi si risponde: “Non capisco”. Ripropongo la domanda con una certa insistenza: “Non ha visto quello che c’era nella sala precedente?”, “Certo – rispondo - ma c’è solo una piccola immagine di Buddha. Tutto qui?”. “Sì - è la secca risposta - tutto qui”.
La vita è ritmata dalle grandi scritte lungo le strade o nei luoghi di lavoro. “Col superamento del sistema feudale e del colonialismo giapponese, sono scomparse le superstizioni che venivano alimentate dal buddismo e dalle altre religioni tradizionali”, mi spiega un accompagnatore. Con la conclusione del VI congresso del partito, il futuro della Corea del Nord è, almeno sulla carta, tracciato. Kim Il Sung ha nominato il proprio successore. “Saremo fedeli al grande capo di generazione in generazione”, dice una canzone che si sente a Pyongyang.
La costruzione della capitale, come simbolo megalomaniaco del rinascimento coreano, contraltare alla corrotta società dei consumi stabilitasi a sud del 380° parallelo, nel frattempo continua, come dovesse diventare l'utopica civitas solis dell'umanità del futuro. Giorno e notte, senza interruzione, enormi gru e squadre di operai tirano su un altro piano del già gigantesco Centro della cultura, mentre poco distante, al suono di una banda militare, migliaia di soldati scavano le fondamenta della nuova pista da pattinaggio sul ghiaccio. Nel silenzio della città serale sotto i fanali che illuminano il centro, i giovani si organizzano per studiare. Che accadrà nel prossimo futuro?
(AN)